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Il curioso caso del detenuto 737 – Introduzione

da | Set 20, 2021 | storie | 0 commenti

 

Prefazione

Definisco”buoni”: gli eventi che allargano i confini delle nostre possibilità. A ben guardare, è sempre così, c’è poco da girarci attorno. Personalmente mi è capitato di incontrare Pierfrancesco De Falcis per conto di WildClimb e per motivi banalmente arrampicatori. C’è voluto un niente… e il nostro mondo fatto di appigli, gomme e magnesio, è velocemente esploso in mille pezzi.

Pensavamo entrambi che il perimetro del nostro discorso fosse quello classico dell’arrampicata. Mi sbagliavo. Si sbagliava anche lui. Avevo di fronte un vulcano di fantasia, un inconsapevole e refrattario “scrittore”. D’altro canto, WildClimb non è solo scarpette, è anche spazio “wild”, libero da ideologie – per quanto possibile – e tutto da inventare.

Non le performance o cose  del genere, di Pierfrancesco, sono finite sul nostro sito le sue parole scritte. Infatti, su www.wildclimb.it ha trovato voce il suo: ultimo giro di trave.

De Falcis torna adesso nella nostra rubrica “Storie” con qualcosa di più articolato: Il curioso caso del detenuto 737. 

Un breve scritto “wild”, che proponiamo in sei capitoli e che ci terrà compagnia per sei settimane.

Perché lo facciamo? I motivi potrebbero essere tanti, ma se le cose buone sono – come dicevamo all’inizio – gli eventi che aumentano le nostre possibilità di fare, capire e agire… beh, come “marchio” di un settore già piccolo e confinato, abbiamo il dovere di indicare la Luna, aprire lo sguardo per non scadere nei claustrofobici “alè! uomo”, “duro”, “dai!”. Un tentativo, per allontanarsi dalle logiche di mercato che regolano l’arrampicata sportiva del “godo solo quando chiudo le vie”, bisogna pur farlo. Poi, se ci ferma a guardare il dito che indica… resta poco da fare.

Invece, “Il curioso caso del detenuto 737” ci porta lontano da questa logica economica e ci conduce nella selva, in un bosco – anche o soprattutto mentale – che nasconde tra i suoi intricati rami i sassi e le pareti che vorremmo scalare. Parla dei nostri desideri, del loro essere inevitabilmente influenzati dai vari miti che modellano, volta per volta, i traguardi da raggiungere per balzare agli onori della cronaca verticale. Mito come volontà di fissazione di un valore a discapito di altri. Mito che si propaga attraverso le copertine e gli articoli dei giornali. Mito che arriva nell’edicola di uno sperduto paesino emiliano – il teatro di questo curioso racconto – fuori tempo massimo. Il tempo passato nell’attesa del prossimo “numero”, diventa il tempo dell’azione. Ma questa moda, che si diffonde con la stessa velocità di distribuzione di una rivista e che arriva a ondate, a un certo punto e a una certa distanza, porta il suo “modello” in un presente che altrove è già passato: una moda sempre fuori moda, un vestire sempre da rivestire. Il gesto, il trave, lo scavo: prima osannati, poi osteggiati.

Pierfrancesco – con le dovute proporzioni del caso – prova a riscrivere “Lolita” nel 2021… e noi lo pubblichiamo!

Il lungo e faticoso allenamento fatto, per passare dal tenere le semplici “sbarre” allo stringere piccoli listelli di legno al trave, trova il suo punto di arrivo esattamente nel punto di partenza, un cominciare che è sempre un ri-cominciare. Sbarre per tenersi o astenersi, chiamarsi fuori dal coro per non finire dentro quel circolo chiuso che narra di libertà cavalcando il mito “arrampicata”.

Pierfrancesco De Falcis si barrica dietro un reticolo di complessità e perplessità insostenibili. Scrive in modo leggero di temi pesanti. Si immerge in ripetute, in serie di faticosi ripensamenti che trovano analogia con i classici allenamenti fatti al trave. I numeri – e mai quelli della scala francese – trovano comunque spazio nella vita di questo “grimpè”. Tanti numeri, usati come moduli, per scandire con realismo iperbolico il ritmo del testo, per tagliare sempre in modo preciso i confini tra le attività che compongono in modo apparentemente staccato la totalità di una giornata. Numeri che si trasformano in una vera gabbia.

Fuggire si può e si deve. Attraverso un racconto che dilata e distorce il tempo, quel metro fatto di omogenei, astratti e staccati secondi con il quale misuriamo solo la durata biologica della nostra vita. Non la sua intensità, il suo senso.

Ecco che, magari, anche sulla scia di questo racconto, sarà più facile ripensare alla via che ci ha fatto cadere nel tentativo “on sight” e trovarla “bella” per l’intensità che ci ha regalato. Se, invece, il pensiero corre al numero che le hanno assegnato in guida… non hai stretto appigli, hai stretto fredde sbarre e ti sei chiuso dentro.

Andrea Tosi


 

Il curioso caso del detenuto 737

 

 

Introduzione

Sai, penso che se mi chiedessi, qui, davanti a queste sbarre, cosa conservo maggiormente di quegli anni, tra fuoco e pareti, penso direi, pur sembrando banale: l’irripetibile suono della sveglia, che così, puntualmente, alle 3.45 del mattino, partiva nel suo martellante suonare.

Quell’orario, era il frutto di anni, e ancora una volta anni, di studi e pratica; un maniacale lavoro di scalpello a togliere tutti i tempi morti.

Cinque soli minuti per tirar su dal letto le spalle ancora dolenti dall’allenamento massacrante di qualche ora prima, ottominuti per preparar la moka e indossare il solito strappato jeans e la classica maglietta Patagonia, dieci minuti, e qui me la prendevo più quieta, per gustar e mandar giù caffeina insieme a una sana dose di dolce nicotina. Il suo quieto scendere nei polmoni, accompagnato dal forte e nero caffè, era quello che serviva per dare la spinta giusta e lenire questa dolce tortura.

Quindi, via! sedici minuti per dirigersi alla stazione dei treni – le ruote della bici erano controllate la sera prima per non rischiare di esser lasciato a piedi a metà strada o poco più. Due minuti per legarla a quel solito palo. Quattordici minuti di treno. Piccola attesa alla stazione di cambio e infine altri trentotto minuti di autobus.

Ma credimi, non è certo finita qui.

Alla fermata, una volta sceso a terra, accendevo il lettore mp3, le instancabili corde vocali di Manson mi accompagnavano lungo l’ultimo tratto: una forte salita che era sempre lì ad attendermi. Il cronometro partiva, e da qui all’arrivo, caro mio, mi duole non esser in grado di darti un tempo preciso.

Beh, parliamo comunque di minuti, solo una volta di ore.

Finalmente, dopo tanta attesa, dopo esser passato dalle due ruote a raggi, alle ottanta ruote di ferro, alle sei ruote gommate, solo alla fine, arrivavo sulle mie due gambe che mi portavano al traguardo: la base di quelle solide pareti.

Ricordo che bastava la quarta curva del tornante in salita a farmi rimembrare i motivi di tale odissea. Quel che poteva esser una quieta mattina, si trasformava in qualcosa, seppur studiato settimanalmente in ogni preciso particolare, di puramente magico.
Tra ossessione e buon senso, io, in quegli anni, scelsi di cavalcar la piccola e sottile linea che separa ambedue.

Ah, certo, dimenticavo, il pesante zaino che mai si separava dalla mia stanca schiena. In esso era tutto distribuito seguendo un ordine ben preciso: dal fondo, ciò che è meglio aver sempre con sé ma difficilmente se ne tende a fare uso, alla cima, ciò̀ che per me, in quegli anni, era indubbiamente indispensabile.

Avevo a disposizione poche ore e le lancette dell’orologio non cessavano di correre, anzi, parevano quasi accelerare e tutto si faceva più rapido, più caotico.

Correvo alla base di quelle pareti, vuote, ancora una volta.

Erano anni di grandi evoluzioni del mondo verticale. Io, isolato, continuavo a leggere le magnifiche imprese degli arrampicatori tedeschi, francesi e delle loro incredibili salite.

Sì, tra le pareti e i sassi adiacenti a esse, correvano sogni, gesta che per me, a quel tempo, erano indubbiamente eroiche, paragonabili a missioni lunari. Come spettatore ammiravo tali imprese, e come i bambini giocano a indiani e soldatini, io, seppur non più bambino, giocavo ad arrampicatore e arrampicata.

Come un soldatino correvo nel bosco a scovare sassi ­– i miei indiani, e con scarpette doloranti ai piedi, salivo su di essi per farli prigionieri.

Ma, salir in cima non contava più, ormai, erano state conquistate tutte le più imponenti pareti. Allora via, a cercar il lato dove si celavano meno appigli possibili. Tutto diventava una questione di stile.

Quando i sassi erano bassi, compivo lunghe traversate alla ricerca dello sfinimento fisico e psicologico; quando erano troppo alti, una corda mi autoassicurava per confortarmi nella ricerca della tanto ambita perfezione del gesto fisico. Dovevo dedicarmi solo ad esso, togliere dallo sfondo del pensiero quella stupida preoccupazione fatta di caviglie rotte e ginocchia tumefatte.

Ma, ahimè, il tempo, come dicevo, sembrava correre, accelerare, e ogni volta, quando finalmente mi avvicinavo ad un buon gesto, ancora una volta, suonava la seconda sveglia, quella più prorompente, quella che mi ricordava che stava per ripassare la corriera. Sei ruote gommate per ritornare alla vita in pianura.

Allora via, di nuovo l’odissea iniziale, ma questa volta a ritroso.

Alle ore 14.56 tornavo alla realtà. A quei tempi lavoravo part-time in una piccola azienda che produceva mascherine industriali. La paga era molto buona, anche se, il piccolo contesto lasciava a me una gran solitudine, apriva praterie che riempivo con piccoli viaggi fantasiosi. Mi teletrasportavo nelle falesie di cui tanto leggevo. Ero nel sud della Francia ed ero nel nord della Germania mentre ero solamente solo.

Sognavo e risparmiavo ogni centesimo. Niente macchina. Niente fidanzate. L’abbonamento mensile alla palestra di ginnastica era a buon mercato e ogni sera, passate le venti, ero catapultato lì dentro da una continua e irrefrenabile voglia di migliorare le prestazioni fisiche. Passavo ore tra gli anelli e le parallele…

Continua il  27/09/2021 su : https://www.wildclimb.it/2021/09/09/il-curioso-caso-…o-737-capitolo-1/ 

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