Capitolo 5 – As-tenersi
Il titolo a inizio pagina ancora riecheggia tra i miei pensieri.
“Chipping is a crime”.
Ehi, ma cosa sarebbe il chipping, pensai. Cominciai la lettura, attentamente. Man mano che divoravo lettere e punteggiatura, mi fu chiaro, di cosa la penna di quell’articolo stesse parlando.
Sinceramente, né allora, né tanto meno adesso, so dirvi se compresi quell’articolo.
L’autore dell’articolo pareva arrabbiato, irrequieto, contro tutti coloro che deturpavano le forme geologiche per soddisfare le proprie voglie ginniche. Parlava con immenso odio, accusando apertamente chiunque facesse del male a quei movimenti, che meritavano certamente di rimanere intonsi e indomabili.
Sì, non arrivai mai a pagina quattordici. Mi soffermai su quella, per circa tre ore e cinquantotto minuti. Leggendo e rileggendo. Provando a capire, se quel dito puntato in maniera così cattiva, puntasse dritto contro di me e alle mie gesta di qualche mese indietro.
Mi diressi all’acciaieria, quel giorno mi spettava il turno pomeridiano.
Quella parola, “chipping”, rimbombava lungo ogni meandro della mia mente. Né le fiamme del forno, né il sudore dalla fronte facevano cessare i continui pensieri sulla pagina numero tredici.
Cessato il turno, mi diressi a casa. Quella sera non ebbi le forze psicologiche per un allenamento sui listelli.
Riflettei a lungo, incessantemente. Avevo forse disonorato il codice etico dei Grimpè, avevo forse osato mettere dinanzi a queste teorie i miei sogni ginnici?
Forse sì, forse l’ambizione di sogni e speranze aveva, in qualche modo, disonorato un invisibile codice a me sconosciuto.
O forse no, forse il mio agire, dalla base di quella che può essere definita pura innocenza, non aveva macchiato quel mondo a me estraneo e puramente immaginario. Il mondo costruito nei miei sogni, si faceva adesso sempre più lontano, economicamente, fisicamente, dalle mie mani, dalle mie spalle, dai miei occhi.
Non dormii quella notte, tornai in fabbrica il mattino seguente ma andai via prima. Non sapevo, e non so tuttora, se tal decisione potesse, in qualche modo, ripristinare la mia condotta, a quanto pare alquanto immorale, nei confronti del verticale.
Quel giorno battei tutti i miei personali record, la biciclettata sino in stazione quattro minuti e trentasette secondi, la camminata sino al bosco, quattordici minuti e dodici secondi.
Di nuovo, salii in groppa al fungo, quattro corde per lato, e da lì, cinque giorni, sedici ore, e quarantadue minuti per non lasciar traccia alcuna di artificiali modifiche.
Il sesto giorno tornai al lavoro, vuoto, le mani stanche e affaticate dai lavori demolitori dei giorni precedenti. La pancia invece, quella, caro mio, non cessava mai il suo brontolare, dall’inizio del pensiero demolitore, sino alla fine della demolizione.
A ogni martellata la gravità richiamava in terra non solo i passaggi e le conformazioni geologiche, ma anche anni e anni di pensieri, sogni e fantasie su di un mondo da apprendere, e loro – i sogni, caro amico, fidati, quando raggiungono il suolo fan più rumore di qualsiasi docile pietra.
Ripresi in fabbrica, incrementai i turni di lavoro, non per vile denaro, ma per cercar distrazioni e pormi domande il meno possibile. A quanto pareva, non avevo mezzi e intelletto a sufficienza per cercar da solo le risposte.
Ma alla fine, ancor una volta, mi tolsero anche quello.
Erano le ore 18:32 di un semplice giovedì sera.
Fui invitato nell’ufficio del direttore, ancora una volta: furto e cattiva condotta.
Ancora una volta, devi scusarmi, dimenticavo di accennarti ad un piccolo dettaglio.
Gli attrezzi demolitori li presi in prestito alla fabbrica, ma forse, preso da tanta fretta, mi dimenticai di avvertir il direttore. O forse lo feci apposta. Si, forse la seconda, ma pietà… ero stanco, confuso, e giuro, li avrei restituiti questa volta, ma dopo un lavoro così lungo ed estenuante, si estenuarono anche loro.
E quindi niente, potrei quasi terminar qui questo lungo e noioso racconto, e tu potresti tranquillamente tornar ai tuoi allenamenti intensi. E farlo con i miei più sentiti ringraziamenti per avermi ascoltato, per aver permesso a queste maledette lancette, almeno oggi, di scorrer un pelino più veloci.
È tutto. Ho iniziato che ero chiuso fuori dalle sbarre della recinzione della fabbrica, e adesso mi ritrovo rinchiuso dalle sbarre di una piccola cella di isolamento. Sì, in effetti, detta così in poche righe, può sembrar un passo infinito, ma se avete ascoltato bene ciò che non ho detto, piuttosto che le mie parole, si rivela, molto semplice, se non banale, il motivo della mia detenzione nella cella di isolamento n°8A del carcere di massima sicurezza Marzio Oglia.
Pierfrancesco De Falcis