Se il buongiorno si vede dal mattino questo mattino non doveva arrivare mai.
La cuccia nel furgone è particolarmente calda e confortevole in questa mattina di settembre sebbene la temperatura e il cielo terso non invitano certo a poltrire. L’ora di partenza oggi ha poca importanza. La gita è breve, quasi tutta conosciuta. Ripenso al significato di quel quasi. A quanto tempo è passato dall’ultima volta in cui quel quasi è stato realtà. Stiracchio le membra. Non ricordo. Tanto tempo sicuro. Forse troppo. Mi vesto. È ancora estate. Maglietta e pantaloncini sono sufficienti. Il resto, poco come sempre, è già stipato nello zaino. Gita breve. Poca acqua. Un lusso per le spalle. L’orologio è rimasto a casa. Dimenticato nella routine dei preparativi. Non so bene perché poi alla fine sono arrivato qua. Con questo quasi nella mia testa. Forse il ginocchio ancora infiammato che non voglio sovraffaticare con un dislivello significativo. Forse voglio illudermi di essere ancora in grado di fare certe cose. Arrivarci vicino e poi girare le spalle con una scusa qualsiasi. Forse voglio solo studiare bene come si va con gli sci su quella cima…
Sono solo. Le scuse, così come le scelte, sono solo mie. Nessuno sa dove sono. Nessuno sa cosa voglio fare. Come sempre. Come è giusto che sia. Una bustina di Polase ed esco, spinto più da un impellente bisogno corporale che non posso espletare nelle vicinanze dell’automobile, che da una effettiva voglia di iniziare la giornata.
Testa bassa; mani sulle cosce. Cerco di tenere un ritmo basso, cosa non facile senza l’aiuto del cardio. Oggi più che mai so che devo arrivare in cima fresco. Non tanto per la discesa, quanto per quel quasi prima della cima.
Testa bassa; mani sulle cosce. Non ero mai qua dentro in estate. Ma ci sono stato una decina di volte con gli sci, forse di più. So dove devo andare. Sono ancora nel cono d’ombra della montagna quando ho davanti a me il rifugio e dietro, lucente nel sole del mattino la mia cima. Passo oltre e inizio a salire il sentiero che porta allo Stol, terribilmente lontano oggi. Come distanza e come idea.
Il buongiorno si vede dal mattino. Bivio per Suho Rusevje, ci son stato una decina di volte. Traccione ed ometto. Eppure … Tiro dritto. Il mio computer di bordo è tarato sugli sci in questo posto. A piedi si fa prima su questo terreno. Quindi il bivio deve esser per forza essere più avanti. Per quanto la neve cambi prospettiva e visione ci sono cose che rimangono uguali. Per esempio, una fascia rocciosa di bel calcare alta una decina di metri e larga venti difficilmente cambia con la neve. Dubbio. Il bivio era laggiù. Continuo ancora un poco, poi sempre meno convinto, onde evitare di passare la mattina a fare su e giù, tiro fuori dallo zaino il telefono e faccio il punto mappa. Sono fuori di buoni 1000 metri. Bene. Ecco pronta la prima scusa. Flebile. Ritorno indietro, prendo il bivio e inizio a salire verso Zleb. Spengo il gps e guardo l’ora. Sono le 7.55 del mattino. Quota 1700 circa. Ancora 500 metri scarsi per la cima. Quasi tutto sentiero. Quasi. Inizio a guardare un po’ attorno. Sento la diversità dei colori; questo mondo così famigliare oggi è del tutto nuovo. Meraviglia delle stagioni. Non è male questo vallone anche in veste estiva. Il grigio delle ghiaie e il verde dei mughi. Il bianco avorio delle pareti. Pareti piccole e non compatte. Rotte in mille frammenti di canali e cengette. Un mondo che non invita ad arrampicare. Arrivo al passo e inizio a vedere la mia meta. Proprio di fronte a me. So che la prospettiva inganna. Ma quella cresta tutto sembra meno che una semplice cresta di secondo grado, come la relazione, o quello che ho capito io della relazione, visto che non mi son preso la briga di tradurre nel dettaglio dallo sloveno, faceva supporre.
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Si alza il vento. Un vento freddo, secco e teso da est entra nel vallone. Sufficientemente teso da rendere a momenti difficile il camminare su questo ghiaione perfettamente tracciato. Andiamo bene. Le scuse diventano più forti. Continuo e intanto mi viene un’ideona. Vado in cima alla Zelenjak, meta cara di belle giornate invernali ma che non ho mai salito fino in cima. Mi fermo dove muore il ghiaione. Mi vesto. Maglia e Windstopper, senza maniche of course; metto le braghe? Ma no e se poi fa caldo? Braghe in pile leggere da portare e calde da mettere. Ma meglio evitare di farci dislivello, almeno fino a novembre. La salita alla Zelenjak è veloce e semplice. Un paio di passi su buona roccia e sentierino. Due cime, due croci, due libri di vetta a 10 metri di distanza lineare e 5 di dislivello una dall’altra. Va beh. Qua si esagera. Mi fermo. Guardo la cresta della Vrtaca. Faccio una buona foto. Individuo nettamente la prima parte. Evidente nell’ombra del versante nord la fessura d’attacco. Capisco che, come sempre, la prospettiva inganna e che sicuramente le difficoltà sono nell’ordine di quello che dice la relazione. Circa. Ho le mani ghiacciate. Poco abituate al freddo in questo periodo. E la circolazione sanguigna non è più quella degli anni migliori. Il vento aumenta d’intensità. Decido di andar a veder l’attacco, così per fare un po’ di metri e poi ridiscendere a Zleb ed, oltre il passo, salire alla Selenitza, di cui vedo l’evidente traccia. Lascio quindi le scarpette nello zaino. Ma il casco, on so come trova posto sulla mia testa. Grave errore. Il ghiaione diventa sempre più ripido, ma si affronta bene sulle roccette a fianco. Il non aver una meta rende la salita più soft, più lenta forse. Non faccio fatica. Arrivo alla forcella dove il ghiaione finisce. Un metro oltre c’è il vuoto. Un gran bel salto di 400 metri fino alle ghiaie della Bieltschica. Senza neve e senza sci quel vallone favoloso perde molto interesse ai miei occhi. Faccio un passo indietro. Mi giro verso la parete. L’attacco è evidente. Così come sarebbe evidente una variante diretta. Ce ne saranno diverse di evidenti variati dirette nei 45 minuti che seguiranno nella mia vita.
Non so perché. Non so come. So solo che ho visto la fessura d’attacco. Ho visto i primi 10 metri di questa cresta, che più che una cresta sembra un pilastro arrotondato, largo e pure verticale. Non penso di tirar fuori le scarpette dallo zaino e magari metterle ai piedi. Non penso che magari sopra quei 10 metri di parete che vedo ci possa essere una rogna. Faccio d’istinto 3 passi e metto le mani sulla roccia. Non penso a nulla. Vedo segni di ramponi sulla roccia. Quindi è giusto. E di slancio mi trovo sopra lo strapiombo iniziale.
Quasi di corsa salgo il resto della fessura fra ghiaino e qualche sasso instabile. La fessura è chiusa da uno strapiombo. Lo avevo visto questo, così come avevo visto che si usciva a sinistra. Facilmente. Facilmente mica tanto. E soprattutto si esce si, ma su placca verticale e liscia. Facile ma liscia, non da spalmo ma quasi. Improvvisamente sento la paura che mi attanaglia. Un nervosismo inizia a crescere dentro di me e prende possesso di tutto il corpo. Sono solo. Sono in ombra. Sono al vento e in braghe corte. Scendere è possibile anche se lo strapiombo iniziale non sarebbe proprio agevole in discesa. Guardo sotto. So che anche se cado dal passo iniziale non finisco in Austria, ma da qua si. Lo strapiombo iniziale lo posso anche saltare. Magari finisco per rompere del tutto il mio ginocchio ma mi fermo là. Tiro il fiato, guardo su. La placca è facile. Poi diventano risalti. La relazione da secondo grado. Va beh sono Sloveni, sarà terzo. Non posso tornare indietro da una salita di 150 metri di queste difficoltà e continuare a non vivere nella mia non vita. Tolgo lo zaino e seppur con difficoltà nella stretta nicchia metto le “Pantera”. Guardo dove spalmare il sinistro e salto su. 15 metri di placca di II con il primo passo di III- su roccia perfetta che diventa sempre più facile. Il mio cuore e il mio cervello pompano come fossi sull’Eiger. Arrivo ai saltini di roccia e ghiaia. Rifiato, vedo un paio di ometti, cerco la strada migliore e arrivo sul filo della cresta. Sole. Terrazzino. L’ansia cala ma troppo poco. Guardo dove andare. Tiro fuori la foto della relazione. Non si capisce nulla. Fatta troppo dal basso questa foto. Spero che almeno il tracciato sia giusto. Guardo in basso. Potrei ancora scendere. Ma non so quanto sarebbe facile rifare la placca. L’aderenza in discesa è una brutta bestia anche sul facile. Poi con 500 metri di salto sotto… e alla fine so che non voglio scendere, che la mia vita continua per la cima della Vrtaca. Mi concentro sulla parte superiore. Inizio a salire. Tasto ogni sasso, ogni pezzetto di ghiaia. Supero abbastanza agevolmente il primo salto verticale e mi porto sotto il secondo. Qua non trovo la strada. Giro e rigiro alcune volte su quel ghiaione, per fortuna assolato e non esposto. A sinistra un camino. Roccia ottima ma il passo iniziale strapiomba da matti. A destra un’esile rampa piena di sassi in bilico. Di là sicuro non è passato mai nessuno. Cerco segni di ramponate. Niente da fare. Qua sicuro la neve crea una bella rampa su cui salire. Alla fine, individuo una nicchietta da cui sembra si possa in obliquo andare a destra ad un pulpito, da cui pare che una cengetta giri a destra e poi si dovrebbe salire sopra il secondo salto. Ottima base su cui fondare le proprie speranze di vita. Condizionale dubitativo. Sperare… da solo sbagliare strada è un bel gioco. Il ritorno non è sempre agevole, poi sui marci. “Chi vivi sperando mori cagando” … rimetto le mani nella nicchietta. Pulisco ancora un po’ a destra e tiro su il piede. Alzo la mano e trovo un bel appiglio. Pure per la sinistra. Quasi banale e sono sul pulpito. Sorpresa. Nessuna cengia aggira a destra la placca verticale. Solo il vuoto, come a sinistra. O si sale diritti o si sale diritti. Leggero strapiombo. Roccia ottima. Appoggi per i piedi. Cavoli troverò qualcosa per le mani su cui tirarmi su. Maledico l’acqua che porto sempre abbondante in queste gite. Maledico il coltellino, il nastro, la fascia per le orecchie e qualsiasi altra cosa pesi sulla schiena. Tiro su i piedi in spaccata. Alzo le mani. Forse non è neanche terzo grado. E sono fuori. Certo che quando non si può sbagliare diventa tutto molto intenso. E il concetto di grado assume un sapore antico.
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Mamma mia che bel tiro sarebbe su per questo spigolo. Placca verticale fessurata. Scappo avanti che di cagate per oggi ne ho fatte troppe. Salgo un poco per gradini ghiaiosi ed erbosi aggirando lo spigolo a sinistra, guardo in alto, ormai non deve mancare molto. Guardo la foto. Qua segna che si va verso destra sullo spigolo. E infatti, wow super. Un chiodo in un camino. Vedo nettamente il chiodo e sono sotto una decina di metri. E la roccia non è male neanche per raggiungerlo. Roccia ottima salto sopra il chiodo e arrivo sullo spigolo su un bel pulpitino aereo. Altro bel tiro sullo spigolo diritto verrebbe… ma perché non hanno chiodato una vietta sul IV? Boh. Magari esiste. Intanto ora devo arrivare in cima. Qua almeno non ci sono dubbi sul dove andare. Sullo spigolo forse è un poco troppo aereo e verticale da provare slegati ma il diedro a destra è la chiave per uscire dalla parete. Appoggiato di roccia bianca. Bello. Un miraggio nel deserto. Fra me e il diedro ci sono meno di 3 metri. Una parete verticale con una esile linea di sassi incastrati a mo’ di cengia esile, proseguo del pulpito su cui sono arrivato. Non c’è un sasso che suoni bene. Pulisco almeno la fessura per le mani. Devo iniziare in leggera bandiera con la mano destra che è miseramente appoggiata al nulla; l’ideale se i sassi su cui devo andar a metter i piedi in spaccata decidono di saltare. Sarà secondo grado, ma sotto i piedi vedo le ghiaie 500 metri sotto. Incastro meglio che posso la mano sinistra nella fessura. Se crolla tutto in teoria dovrei rimanerci appeso. Meglio non pensarci. Allungo la gamba destra in spaccata più delicato che posso. Tasto e piano piano porto il peso sopra. La mano destra si allunga e trova una tacchetta. Modello napoleonica. Accoppio le gambe e in un sol movimento spacco la destra sul diedro. E mi spalmo sopra. Respiro. Sento che sono fuori. Il diedro è facile. Sopra vedo il blu del cielo senza roccia. Ancora un paio di passi marci e sono in cresta. La grande picozza della Vrtaca è là. A pochi minuti da me ad indicare la cima, i gracchi e gli escursionisti. Sono le 9 e 50 del mattino. Avrei detto che era mezzogiorno.
Sono riuscito a sopravvivere a me stesso.
Alla paura di fare qualcosa che, chi sa perché, non avrei dovuto fare, come violare un luogo sacro, commettere un sacrilegio.
Qualcosa che non avrei dovuto essere più in grado di fare. Sono sopravvissuto, senza aver rischiato nulla, alla paura di morire, di farmi male o forse molto più realmente alla paura di non essere più in grado di fare certe cose. Di salire ogni parete che posso sognare, di dominare il vuoto, il caldo, il freddo, la fatica, la paura, il vento, gli appigli, gli appoggi, la roccia marcia, la solitudine, me stesso.
Alla disperazione e alla depressione dell’età che avanza, delle forze che calano della volontà che vacilla.
Sono sopravvissuto per poter scalare ancora.
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Massimo Esposito
16 settembre 2018